Il 2023 sarà un anno decisivo per l'Ecuador...
...dopo dieci anni di battaglie dei collettivi ambientalisti il Paese andrà al voto per salvare il parco nazionale del Yasuní dallo sfruttamento petrolifero. É uno dei luoghi con più biodiversità al mondo
di Francesco Sandri, giornalista
Tratto da la rivista 24 maggio 2023
Il parco nazionale Yasuní è l’area protetta più grande dell’Ecuador e abbraccia più di diecimila chilometri quadrati di foresta pluviale. La sua chioma conta più di 2mila specie di alberi e arbusti. Sotto i suoi rami volano, corrono e nuotano più di 1.500 specie di animali vertebrati e l’aria è riempita dal canto assordante di oltre 100mila specie di insetti: è una delle zone con più biodiversità del pianeta.
Queste non sono però le sue uniche ricchezze: nel sottosuolo del Yasuní sono presenti le maggiori riserve di petrolio dell’Ecuador, concentrate nel “Blocco” petrolifero 43, chiamato Ishpingo-Tambococha-Tiputini (Itt). Riserve enormi, che negli anni hanno fatto gola a tutti i governi in carica. Riserve che oggi, dopo un travagliato esercizio di democrazia popolare, potrebbero rimanere per sempre sotto terra.
Una storia oliata dal greggio
L’Ecuador è uno dei paesi più piccoli dell’America Latina, ma i suoi giacimenti petroliferi sono i terzi più grandi della regione. A partire dal 1972, anno in cui la prima petroliera salpò dalle sue coste, il greggio è rapidamente diventato il settore più importante dell’economia e dell’export ecuadoriano. Nel 2011, circa il 55 per cento delle esportazioni e il 39 per cento delle entrate fiscali del paese erano riconducibili al petrolio. Nel 2022 sono state rispettivamente il 36 per cento e il 19 per cento, connotando un settore in declino, ma ancora molto importante. Ogni governo ha visto nel petrolio un motore di sviluppo e finanziamento della spesa pubblica. L’attuale presidente Guillermo Lasso – che il 17 maggio scorso ha sciolto le camere per evitare un processo di impeachment per peculato – ne ha enfatizzato l’importanza per ripagare il debito pubblico del paese. “Ora che la tendenza è abbandonare i combustibili fossili, dobbiamo estrarre fino all’ultima goccia di profitto dal petrolio”, ha dichiarato lo scorso anno. La sua promessa è di raddoppiare la produzione.
In passato l’Ecuador ha tentato un approccio opposto nei confronti delle sue risorse fossili, ossia non estrarle e guadagnarci lo stesso: è l’idea di fondo dell’iniziativa Itt-Yasuní, lanciata nel 2007 dal governo di Rafael Correa. In quest’ottica, l’Ecuador si sarebbe impegnato a non sfruttare il petrolio del Blocco 43-Itt, preservando la biodiversità del Yasuní ed evitando l’emissione di 407 milioni di tonnellate di CO2 ricevendo in cambio, dalla comunità internazionale, la metà del valore del greggio non estratto: 3,6 miliardi di dollari. Un sistema simile a quello utilizzato dagli attuali mercati delle compensazioni delle emissioni di gas serra. Nonostante le buone intenzioni, l’iniziativa ha raccolto meno del 4 per cento dei fondi previsti e nel 2013 Correa l’ha dichiarata fallita. Lo stesso anno, su richiesta del presidente, il parlamento ha approvato i permessi necessari per iniziare le operazioni petrolifere nel parco.
In difesa del Yasuní
Questa mossa del governo ha indignato le popolazioni native dell’area. Il parco ingloba parte del territorio della nazionalità indigena Waorani e ospita gli unici due popoli in isolamento volontario del paese: i Tagaeri e Taromenane. “Cinquant’anni di sfruttamento petrolifero nell’amazzonia ci hanno lasciato solo inquinamento e malattie. Vogliamo che il nostro territorio sia rispettato”, afferma Alicia Cahuiya, che è vicepresidente della nazionalità Waorani. “Il Yasuní è un essere vivente e vogliamo che rimanga in vita per le generazioni future. Non solo per l’Ecuador, ma per il mondo”, aggiunge. Chi abita l’amazzonia ecuadoriana sa bene cosa comporta lo sfruttamento di risorse in questo territorio. Il passato è pieno di esempi negativi. Andrés Tapia, dirigente della comunicazione della Confeniae (Confederazione delle nazionalità Indigene dell’amazzonia ecuadoriana) ricorda che “nelle zone di estrazione di petrolio vengono pregiudicate la salute pubblica e sociale, con un aumento degli indici dei tumori, alcolismo, prostituzione, criminalità e abuso di droghe. Un altro effetto, naturalmente, è la degradazione degli ecosistemi”. I danni maggiori sono causati dalle fuoriuscite. In Ecuador tra 2012 e il 2022 ce ne sono state 1.584. Quasi una ogni due giorni. È una storia che si ripete da cinque secoli: la ricchezza se ne va, i danni sociali e ambientali rimangono.
Le popolazioni indigene sono le più colpite dalle attività estrattive, ma non sono le uniche interessate alla difesa del Yasuní. Nel 2013 è nato infatti il collettivo Yasunidos, che raggruppa cittadine e cittadine di tutto il paese, oltre che organizzazioni ambientaliste e per i diritti umani. Il collettivo vede nel parco “un luogo importante per combattere la crisi climatica, per la conservazione della biodiversità e per la sopravvivenza delle popolazioni indigene in isolamento volontario”, spiega il suo portavoce Pedro Bermeo. Il collettivo respinge gli argomenti economici usati dai diversi governi per giustificare l’estrazione, poiché ritiene che lo sfruttamento delle risorse naturali spesso si riveli una trappola per lo sviluppo. Uno studio pubblicato su Energy for Sustainable Development è molto chiaro in merito: gli stati che dipendono dalle esportazioni minerarie o petrolifere sono in media più fragili e ottengono scarsi risultati in termini di crescita economica, occupazione ed equità.